Arco di Prato
Percorrendo via Leonardo Prato, antistante la suggestiva corte dei Ziani, non si può sfuggire al fascino di un singolare monumento cittadino: l’Arco di Prato, teatro di leggendari aneddoti cittadini che hanno colpito il cuore “presciatu” (gioioso) dei leccesi.
Si tratta di un passaggio “ad arco” che si apre su un massiccio avancorpo murario sormontato da una balaustra, dove si mescolano canoni costruttivi dell’architettura civile e militare.
Austero e solenne, costituiva l’ingresso all’atrio del cinquecentesco Palazzo Prato, appartenente ad una famiglia nobiliare molto in vista in città, ancora celebrata nei due stemmi araldici che fiancheggiano l’arco, con uno scudo sormontato da una figura dalle sembianze umane.
Il palazzo apparteneva a Leonardo Prato, illustre personaggio leccese che ha dato il suo nome alla via che conduce alla sua abitazione. Denominato “il frate guerriero”, fu cavaliere dell’ordine dei Gerosolomitani (ora Cavalieri di Malta) ed un celebre condottiero d’esercito del 1400. Ebbe molti riconoscimenti militari, dando lustro alla sua casata nel cruento assedio di Rodi del 1480, in cui i cavalieri sconfissero l’impero ottomano alla guida del generale Gedik Pasha.
Godette dei favori degli aragonesi e in particolare del re di Napoli Ferrante d’Aragona, dal quale ottenne molti privilegi, tra cui il diritto di asilo nella sua casa a Lecce. Da questo diritto concesso deriva il primo aneddoto, che certamente appassionava chi avesse compiuto un reato: “Non si poteva arrestare il colpevole che fosse riuscito a rifugiarsi nell’atrio del palazzo entrando da quell’arco”.
Leonardo Prato, amatissimo dai veneziani, si schierò con la Repubblica di Venezia combattendo contro i francesi al fianco del Pontefice e con il ruolo di comandante supremo di tutta la cavalleria veneta. Ucciso nel 1511 sul campo di battaglia, fu sepolto nella Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Venezia. Per i suoi meriti militari, le sue gesta furono perpetuate con una grande statua equestre in marmo fatta realizzare sulla sua tomba,
Da non perdere
Sul fianco destro dell’arco, imboccando via dei Veterani, vi è una incisione sul paramento murario con tre stemmi della famiglia Prato (due grandi di tipo angioino e un piccolo scudo inclinato con un elmo e una mantellina). Anche se molto compromessi dal tempo, sono di grande interesse per gli studiosi di araldica.
Nella villa comunale G. Garibaldi, tra i busti di tanti uomini illustri salentini, vi è quello in pietra di Leonardo Prato, realizzato nel 1889 da Eugenio Maccagnani.
Curiosità & aneddoti
L’arco conduce ad una corte interna, dove prospettano alcuni edifici residenziali. Tra questi sulla destra il Palazzo Prato, contraddistinto da una scalinata monumentale. Al civico n.10 vi è la casa dove visse Cosimo De Giorgi, lo studioso che portò in luce l’Anfiteatro romano. Il 9 dicembre 2022, in occasione del centenario della sua morte, è stata apposta sulla facciata della sua casa una targa commemorativa.
L’Arco di Prato è molto conosciuto dai leccesi, non tanto per la sua nobile architettura o per il prestigio del suo originario proprietario, ma per le leggende che evoca e per un’esclamazione profana che lo ha reso famoso.
Il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, venuto nel 1797 a Lecce per il matrimonio del figlio, fu accompagnato dal sindaco Giosuè Mansi a fare un giro turistico della città. Giunto davanti all’Arco di Prato, all’indicazione “Maestà, questo è Arco di Prato”, il sovrano, di pessimo umore, senza esitazione, sbottò con accento napoletano: “E io me ne fotto”. “Arcu te Pratu” divenne così per i leccesi il sinonimo dialettale dell’ espressione “E io me ne fotto”.
I leccesi si vendicarono con Ferdinando di Borbone (conosciuto con il nomignolo di” re nasone” e “re lazzarone”) non presentandosi a salutarlo al momento della sua partenza da Lecce. Quando il sovrano sorpreso ne chiese il motivo, il sindaco rispose: “Maestà Lecce è città te arte: se ‘nde futte te ci rria e te ci parte” (cioè “Maestà, Lecce è una città di arte: se ne frega di chi arriva e di chi parte”).
Questo aneddoto, scritto e musicato nel 1938 dai fratelli Menotti e Luigi Corallo, è narrato nella famosa canzone folk “Arcu te Pratu” cantata dal salentino Bruno Petrachi: un quadretto pittoresco di Lecce novecentesca, il cui ritornello ripete “Sìmu leccesi/ core presciatu / sòna, maestru /Arcu te Pratu”.… E’ un autentico inno d’amore per i leccesi, che da sempre si identificano con il loro amato arco.
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