Chiesa di Santa Maria della Nova
Non sappiamo quanto la storia si confonde con il mito, ma la chiesa di Santa Maria della Nova, ubicata in via Idomeneo, fondatore della città, probabilmente sulle rovine del suo palazzo reale, ci fa sprofondare nella foschia di tempi eroici e favolosi.
Racconta la leggenda che, dopo la presa di Troia, una tempesta condusse Idomeneo con la sua flotta sui lidi salentini. Il re Dauno oppose resistenza al suo ingresso in città ma, dopo la sua morte, l’invasione si risolse felicemente con il matrimonio tra Idomeneo ed Euippa, sorella di Dauno. Ottenuto lo scettro della città, Lycio Idomeneo la ampliò e la ingrandì, dandole il nome di Lecce.
Ora quel mito è sotto le ceneri del passato e non vi è traccia di quelle rovine reali, né è stata rinvenuta l’iscrizione in marmo che testimoniava la presenza della Reggia di re Idomeneo. Rimangono solo alcune tracce del tempio e del monastero quattrocenteschi, eretti nel 1470 per volontà del nobiluomo Nuzzo Cacudi, che ne finanziò la costruzione, dando rifugio claustrale alle sue due figlie.
Andata in rovina, dopo aver subito alcuni restauri strutturali, tra il 1779 e il 1782 la chiesa fu ricostruita per volere delle suore domenicane, su disegno dell'ingegnere napoletano Carlo Salerni, marchese di Nevano, ingegnere degli eserciti del Regno di Napoli.
La facciata, ad andamento convesso, è suddivisa in due ordini raccordati da volute “a ricciolo”. Scandita scenograficamente da quattro paraste, con capitelli corinzi tra loro raccordati da festoni, presenta, oltre il cornicione, una grande finestra sormontata da una decorazione con conchiglia. Termina con un fastigio spezzato, che accoglie un’edicola sormontata dall’esile croce.
L'interno è ad aula unica ellittica con abside. Presenta copertura a capriate lignee, a cui è appeso un controsoffitto “a volta carenata” ricoperto con stucchi decorativi. Dal cornicione della trabeazione si affacciano otto angeli in cartapesta che reggono ghirlande. Oltre gli archi delle cappelle si aprono le grate dei “coretti”, dalle quali le claustrali seguivano le funzioni senza essere viste.
Abbandonata per anni, rischiava il crollo, finchè nel 2005 e nel 2009 non fu restaurata dall’Arcidiocesi di Lecce. Chiusa al culto, dal 2018 è aperta al pubblico grazie all’Associazione culturale di difesa del patrimonio artistico e delle bellezze minacciate “Italia Nostra”.
La chiesa faceva parte del complesso religioso delle Domenicane, il cui monastero nel secolo XVII ospitava ottanta suore claustrali, contraddistinte da un grande zelo religioso. Dopo la soppressione dell’Ordine nel 1812, l’edificio fu venduto a privati che lo trasformarono in unità residenziali. Della costruzione quattrocentesca sono ancora visibili, sotto il cornicione sommitale su via Idomeneo, alcuni archetti pensili trilobati.
Da non perdere
Sul primo altare a sinistra e sul primo a destra vi sono le copie delle tele realizzate dal sacerdote leccese Oronzo Tiso: → la “Vergine Addolorata” e la “Vergine con il Bambino e S.Domenico”, oltre a quella della ”Natività della Vergine” posta dietro l’altare maggiore. Le tele originali sono esposte nel Museo Diocesano di Arte Sacra nel Seminario.
Molte sono le opere perdute o rubate, tra cui altre due tele di Oronzo Tiso raffiguranti “S.Giuseppe col Bambino” e “S.Nicola da Bari”, né è stato mai trovato il prezioso tabernacolo in marmo, commissionato dalle suore domenicane a Napoli.
Curiosità & aneddoti
L’attuale sagrato originariamente si allungava fino a via Palmieri consentendo alla facciata della chiesa di essere vista, quale fondale scenografico, dall’incrocio con via Palmieri. Dopo la costruzione ottocentesca del fabbricato ad angolo, la facciata si svela “a sorpresa” nella sua riservata armonia.
Sempre la leggenda narra che il sito dove sorge la chiesa fu “un oscuro carcere” dove subirono vessazioni per 11 giorni i Santi Oronzo e Fortunato, prima del loro martirio del 68 d.C.
I fondatori di Lecce sono presenti sul fregio di Porta Rudiae con epigrafi dedicatorie:
→ io Euippa, sorella di Dauno, sopravvissuta al fratello, con mano di donna seppi reggere lo scettro avuto
→ io sono il re Malennio, illustre per il mio regno e per le armi
→ io sono il re Dauno, figlio di Malennio, illustre per nobiltà e valor militare
→ io sono Lizio Idomeneo, col matrimonio con Euippa, ottenni la citta’ che mio suocero aveva fondato e la ingrandì, dandole anche il nome.
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